Un anno fa si fermava il cuore enorme di Daniele Redaelli.

Un anno fa si fermava il cuore enorme di Daniele Redaelli.

31 Dicembre 2018

Un anno fa si fermava il cuore enorme di Daniele Redaelli. Per tutti: un grandissimo giornalista della Gazzetta dello Sport. Per chi ha avuto la fortuna di viverlo, molto, troppo di più per non sentirne ancora una mancanza lacerante.

Per chi non ha avuto il privilegio di conoscerlo, ricordo qui alcune delle parole più belle che ci ha lasciato e che restituiscono il suo ritratto migliore.

Novembre, 2006: Daniele è protagonista di un episodio particolare all’ospedale di Monza. Si emoziona. Si chiude in auto, scrive un racconto di getto e lo invia per condividere l’emozione con gli amici più intimi.

L’EMAIL

“Non mi costa confortare, anzi, se ci riesco mi sento davvero appagato. E il mio ottimismo, il mio essere positivo verso la vita nasce proprio dai successi (non che ci siano sempre, ovviamente) nell’aiutare le persone a cui voglio bene. Mi basta il risultato, i gesti di… riconoscenza sono certo graditi ma non attesi o meno che mai pretesi. Ci sono poi episodi a cui assisto che mi danno carica e mi fanno guardare con un sorriso al futuro. Ti allego un piccolo racconto, una cronaca che ho voluto scrivere subito perché volevo fissare l’emozione intensissima che avevo provato. Ho pianto mentre la scrivevo in auto, sul computer portatile, in una piazzola buia sul lago, pianto di gioia. Non mi vergogno di dirlo. Il mondo non può essere sempre brutto.“

IL RACCONTO

Medicina nucleare del San Gerardo, Monza. Ore 8.50. All’accettazione chiamano: “C’è la bambina Elisa Raducanu?” Nessuno risponde, d’altra parte sono quasi il più giovane nel gruppetto dei pazienti in attesa di tac, scintigrafie e quanto altro. Bambini zero.

Pochi istanti ed eccola. Elisa arriva, in braccio alla mamma. Lineamenti rom, magra, alta e dolce la mamma, magro anche il padre, jeans e felpa per entrambi, dimessi, ma puliti, in ordine. Giovanissimi, direi vent’anni. La bimba è vestita di verde carico, allegro. Domando: “Raducanu?”, la ragazza annuisce. “Allora vi hanno già chiamato”. “Grazie”, risponde, ma è come intimidita, dalla gente, dallo sportello, dall’ospedale. Le indico l’impiegata dell’accettazione. La ragazza si avvicina con in mano le carte: “Avevo appuntamento per 9”. “Sì, Raducanu, vero? Compili questo”, risponde la signora, non sprezzante, ma neppure gentile che deve dividersi tra telefonate per appuntamenti e pazienti presenti. La ragazza resta lì in piedi, ha qualcosa da chiedere. Mi avvicino con una penna, gliela porgo e le spiego: “Qui deve firmare lei, qui il papà, qui dovete mettere i vostri nomi, qui quello della bambina e il giorno della nascita Quanto ha?” “Tre mesi”. Elisa è sveglia, ha due occhi scuri e attenti, piccolina e bella.

“Tre mesi ed è qui a medicina nucleare”, penso.

La mamma compila e torna allo sportello con le sue carte. “Tessera bambina”, chiede la signora, lei porge un foglio sostituivo. “Impegnativa”, sollecita l’impiegata alzando un po’ la voce. Mi avvicino. “Lei aspetti oltre la linea gialla!” mi intima. “Si calmi – le dico – voglio solo aiutare la signora”. Trovo l’impegnativa tra le carte e la ragazza gliela consegna dedicandomi un sorriso. Torno a sedermi. “Qui il medico si è scordato di segnare il codice dell’esenzione, per cui, se volete farlo, dovete pagare per questo esame”.

La mamma chiede: “E quanto costa?” “Adesso guardo”, muove le dita rapide sul computer. “Sono 153 auro”. La ragazza è congelata, poi dice: “Non abbiamo questo soldi”. “Non so cosa farci – dice – comunque se vuole pagare deve andare su al Blocco B sportello 6 e prendere il numero poi tornare qui con la ricevuta”.

Ma ormai per i due giovani questo è sanscrito. Si guardano in faccia senza dire una parola, sgomenti. Non faccio in tempo di finire di pensare: “Cavolo, non è giusto, adesso glielo pago io!” che si alza una signora, cappotto di cammello, pullover di cachemire, filo di perle, borsa di Prada, aria, devo dire da schizzinosa, accento dichiaratamente monzese, una da cui ti aspetteresti un commento acre, del tipo: “Questi vengono dalla Romania e vogliono farsi curare gratis da noi”. Invece tocca delicatamente la ragazza sulla spalla e le dice: “Non preoccuparti, ti do io i soldi”. Scatta in piedi un’altra signora: “No, facciamo a metà”. E all’improvviso un’altra donna si mette come sull’attenti: “Allora dividiamo in tre!”

Sono stupito ed esaltato, mi aggiungo: “Signore, grazie, stavo per pagare io, quindi dividiamo in quattro”. “Mettiamo 50 euro a testa – propone la prima – così le lasciamo qualcosa per la bambina”. Detto e fatto. La seconda dice: “Io non ho visite. Aspetto la mia mamma. Accompagno io tuo marito a pagare il ticket. Tu resta qui che magari chiamano le infermiere”. E spinge il padre verso le scale.

La ragazza stringe al collo la sua bambina, sta lì, impalata in mezzo alla stanza, allarga la mano sinistra aperta, il polso piegato verso l’esterno in un gesto che sembra dire “Grazie, non ho parole…” e, silenziosamente, comincia a piangere, immobile. Guardo le due compagne di colletta rimaste in sala, scambio con loro un lieve cenno del capo che vale più di mille discorsi. La mamma di Elisa ci sorride, mentre il viso è completamente inondato di lacrime. Siamo tutti muti, sembriamo personaggi di un quadro. E se fossi fuori a guardarlo, direi che al centro c’è una bellissima madonna.

Onno, 24 novembre, 2006, ore 17.15.

Questo era Daniele Redaelli.

Il regalo che ci fa per il 2019 è il suo irriducibile ottimismo: “Il mondo non può essere sempre brutto”.

Il regalo che ci chiede è l’impegno per la sofferenza degli altri, gioire per la loro felicità fino alle lacrime. Sarà sempre questo il mondo migliore per ricordarlo. Non le parole.

Buon anno, Fratellone.

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