Biraghi: “La fascia di Astori non si tocca”

Biraghi: “La fascia di Astori non si tocca”

5 Marzo 2019

Obbiettivamente sembrava il posto ideale dove conservare la memoria di Davide Astori e il modo migliore per continuare a portarlo in campo: le sue iniziali, DA, e il suo numero, il 13, sulla fascia da capitano della Fiorentina. Lui che lo era stato fino all’ultimo giorno.

Ma la Lega calcio ha deciso di silenziare tutte le stoffe al braccio, di omologarle e così sono divampate le polemiche, le critiche, le ipotesi di deroghe.

Al di là del caso specifico, chi ha pensato di ripulire le fasce da capitano, per rendere magari più visibile il marchio di uno sponsor, non ha capito che i tazebao che portava al braccio il Papu Gomez e le frasi d’amore di De Rossi non era giochini infantili, ma un bisogno di comunicare molto più profondo, quasi ancestrale.

Ogni calciatore che si cala in uno stadio, come un gladiatore in un’arena antica, attraversa un bosco d’iniziazione. Non sa se e come ne verrà fuori. Sente perciò la necessita di esorcizzare le sue paure, a cominciare da quella della morte. Ecco Astori, l’amico scomparso, da tenere legato al braccio.

Ecco Moahamed Salah che alla Fiorentina scelse il numero 74 a ricordo delle 74 vittime degli incidenti di Port Said. Ecco Fabio Quagliarella che indossa il 27 per non dimenticare Niccolò Galli, scomparso nel 2001. Ecco Pepito Rossi che porta il 49, anno di nascita del padre, morto nel 2010.

Quando un anno fa il Milan comunicò a Franck Kessie che avrebbe dovuto passare il 19 a Leonardo Bonucci, arrivato per spostare gli equilibri, il ragazzo si chiuse in una stanza e cominciò a piangere. Il 19 era la data di morte di suo padre. La madre gli insegnò a vivere quella rinuncia come un passaggio di crescita. Kessie allora prese il 79, il numero che graficamente più assomiglia al 19. Il 7 è un 1 che ha sollevato la testa.

Perso il suo amato 9 all’Inter, Ivan Zamorano scelse il 18 e tra l’1 e l’8 incrociò due cerotti per evocare la somma: 1+8=9. Comunicava così il suo orgoglio ferito e incerottato.

In campo si esorcizza la morte e si celebra la vita.

I giocatori, ultimo Candreva, gonfiano la maglia con un pallone e si succhiano i pollici per annunciare una nascita. Materazzi vestiva il 23, data del suo matrimonio, e portava le foto dei figli sui parastinchi: “Così se qualcuno mi scalcia, mi arrabbi di più”. Messi, Perisic e Cassano si sono ricamati i nomi dei figli sulle scarpe da calcio.

Sprofondati sul prato, in fondo a pozzi assordanti pieni di gente, che sono gli stadi, i calciatori devono combattere. Si tatuano e scolpiscono creste, come gli indiani, per farsi coraggio e per intimidire il nemico. Sivori si abbassava i calzettoni alle caviglie e Cantona sollevava il colletto della maglia per la stessa ragione: sfidare il mondo, provocarlo.

I calciatori possono fare silenzio stampa prima e dopo le partite, ma durante quelle piccola vita che nasce con un fischio e muore con tre, hanno un disperato bisogno di comunicare.

Non silenziateli mai.

 

Via | Sportweek

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