Luca Campedelli: “Il Chievo in A? Un sogno. Quando mi sveglio, vi dico”

Luca Campedelli: “Il Chievo in A? Un sogno. Quando mi sveglio, vi dico”

29 Maggio 2019

Domani il Chievo Verona, ultima partita casalinga, saluterà i suoi tifosi, poi, dopo la successiva trasferta, comincerà a incamminarsi verso la serie B, dopo 11 anni ininterrotti di Serie A. Se cancelliamo la veloce parentesi nella serie cadetta del 2007-08, contiamo 17 anni di Chievo nella massima divisione, dal 2001 al 2019.
Ci viene da salire in piedi sui banchi per salutarlo, come nella famosa scena dell’”Attimo fuggente”, perché anche il Chievo ci ha insegnato tante cose di cui essergli grati.
Ci ha insegnato, per esempio, che gli asini possono volare. Quelli dell’Hellas sfottevano: “Quando i mussi i volerà faremo il derby in Serie A”. E invece, con la storica promozione dalla B, nel 2001, i mussi sono volati per davvero fino al paradiso del calcio italiano. La squadra di un quartiere di 4.000 anime si è ritrovata in lotta con le metropoli. La maglia gialla come la luna che è il simbolo dell’utopia. Tu mi chiedi la luna… Eccola la luna. Ecco la Serie A. Ecco i derby con l’Hellas che vinse anche lo scudetto. Eccoli gli asini che volano.
E volano così alto che sembrano aquile. All’ottava giornata del suo primo campionato di A, il Chievo, che aveva esordito andando a vincere a Firenze, era già in vetta da solo.
A farlo giocare così bene era un bravo allenatore, Gigi Delneri, che nascondeva sotto i baffi parole impercettibili, come l’omino Bialetti dell’antico Carosello. Il presidente, Luca Campedelli, aveva invece il volto giovane di Harry Potter. Suo padre Luigi, che gli lasciò azienda e Chievo, si era raccomandato: “Ricorda, il pandoro non mangia il calcio”. Voleva dire massimo rispetto dell’azienda di famiglia e dei bilanci.
Il Chievo ci ha insegnato che con buone idee, con l’occhio lungo di abili dirigenti come Sartori e Pacione, pur senza grandi capitali, si può restare a lungo in Serie A e addirittura vivere eccitanti notti di coppa a Belgrado e a Sofia.
Il Chievo ci ha insegnato che se un mister non mangia il panettone, può sempre rifarsi con un pandoro.
Ma, soprattutto, in questi anni, il Chievo ci ha insegnato a essere Chievo. Ci ha dato il coraggio di osare pur non avendo grande talento e grandi risorse. Se una squadra di quartiere riesce a espugnare San Siro, vuol dire che anche noi, se ci mettiamo l’umiltà, la passione, la grinta di Moro e Lanna, possiamo farcela in ufficio, a scuola, ovunque, anche contro chi è più dotato di noi.
In questi anni il Bentegodi del Chievo è stato un canyon ostile che anche i visi pallidi più intrepidi hanno attraversato con preoccupazione. Per venirne fuori bisognava pareggiare il furore atletico e i valori etici degli indiani pandorati cha hanno fatto collezione di scalpi eccellenti.
E, infine, il Chievo filosoficamente è stato un invito costante all’esercizio del dubbio, a pesare pirandellianamente la realtà e l’apparenza, perché un Eriberto alla fine potrebbe anche chiamarsi Luciano.

#LuigiGarlando

Via | SportWeek

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